Prima domenica di ottobre, infilata tra le pietre, incastrata tra i ricordi
di vicoli e di qualche desiderio antico saltato fuori da un angolo di calcinacci,
dalla luce di un lampione.
Prima dell'ennesima partenza nasce sempre il bisogno di recuperare qualche frammento che temo sia ancora smarrito tra i luoghi della mia adolescenza, quelli del beltempo di ciascuno, in cui ogni cosa appartiene a un mondo intimo e delicato, in cui l'universo intero poteva essere un'amicizia solida o il racconto di una fantasia.
Sul beltempo, sui ricordi, sull'identità, sulla lingua, nel bagaglio del ritorno c’è finito, su consiglio, ‘La lingua salvata’, il primo libro della trilogia autobiografica di
Elias Canetti.
"Se esiste una sostanza intellettuale che si riceve nei primi anni, alla quale ci si riporta poi sempre e dalla quale non ci si libera mai più, per me quella sostanza è lì. Io ero permeato di una fiducia cieca nella mamma, i personaggi di cui lei mi parlava e su cui mi interrogava sono a tal segno diventati parte integrante del mio mondo che non riesco più a scinderli gli uni dagli altri. Tutti gli influssi che ho subìto successivamente
sono in grado di rintracciarli uno per uno. Questi, invece, formano un’entità
unica che ha una sua densità e un suo spessore indivisibili. Da allora, da
quando avevo dieci anni, è per me una sorta di articolo di fede credere che
sono fatto di molte persone, della cui presenza in me non mi rendo
assolutamente conto. Credo che siano loro a decidere ciò che mi attira o mi
respinge negli uomini e nelle donne che mi capita di incontrare. Sono stati il
pane e il sale della mia prima età. Sono la vera vita segreta del mio spirito.”
Questa sostanza, che posso vedere, toccare, sentire, annusare tra questi vicoli, sporgendomi dal muricciolo alla fine della strada di casa, passeggiando per i boschi, è fatta di
parole, è fatta di fiabe e di racconti, è fatta di silenzi, dello spazio
misurato della soglia del focolare, del percorso che unisce le case alle vigne,
della lentezza necessaria del rito, dell’odore dello zolfo, del tempo delle
stagioni, dello sfrigolio dell’olio dei paralumi.
É fatta di colori: il nero del lutto, il rosso del fuoco, il giallo della paglia nelle stalle, il verde intenso e impenetrabile dei boschi tutt’intorno. Questa sostanza è fatta della mia lingua, che, riprendendo Canetti, è una lingua ancora da salvare, ancora da cercare, da ascoltare, da capire, da indagare, da vivere, da immergere in un quotidiano mutato che non è più quello del beltempo.
É fatta di colori: il nero del lutto, il rosso del fuoco, il giallo della paglia nelle stalle, il verde intenso e impenetrabile dei boschi tutt’intorno. Questa sostanza è fatta della mia lingua, che, riprendendo Canetti, è una lingua ancora da salvare, ancora da cercare, da ascoltare, da capire, da indagare, da vivere, da immergere in un quotidiano mutato che non è più quello del beltempo.
foto_r o d n e y s m i t h |
Io scrivo in italiano perchè non saprei farlo in arbëresh. La sua ricchezza è vitale per la mia espressività, ma il limare continuo della scrittura mi sembra a tratti legato alla necessità di un'essenzialità che l'arbëresh ha già in sè e che è già poesia, a suo modo. Ha una cosa che non trovo in italiano: la misura, del limite e dei confini tra le cose, delle distanze.
Questa lingua traduce una sorta di sintesi del pensiero, in cui alle parole è associato nell’immediato un valore
che rimanda ad altro.
Così fjala non è solo la parola, ma ha un peso e una fermezza più solida; mirë non è solo bene, ma è anche
l’amore, a questo punto raccontato, dichiarato.
Sostanza dei pensieri, come ciò che sta sotto, nel profondo, come identità; non quel gusto un
po’ fuori moda di restare legati alle radici ma quelle radici per cui noi
cerchiamo un determinato tipo di persone, un determinato modo di essere e di
vivere, rimanendo fedeli a quell’idea di persona, a quell’idea di vita.
Questo è della lingua nel ritorno, il suo bagaglio infinito; e nel ritorno sempre ho l'impressione di sentire ancora sorridere i miei nonni, zia Agata nella sua
poltrona, e i loro sguardi oltre la saggezza, oltre l’onniscienza, oltre il
tempo, oltre me stessa, oltre ogni tipo di affetto.
4 commenti:
Vorrei poter scrivere come scrivi tu, con la stessa scioglievolezza delle parole che ti toccano l'anima e poi se ne vanno leggere, ma comunque ti fanno compagnia. Partenza...ma per dove????
Io ho una GROOOOOOOOOOOOOOOOOOSSA NOVITA'!
Baci baci
effettivamente scrivi bene, come dice la Mirtilla...
e poi dai un non so ché di sensato e profondo a quello che esprimi, mi fai sentire in difetto senza aver colpa, ed è una sensazione per nulla spiacevole
grazie patalice, sono molto belle le tue parole
leggere è completarsi, a parer mio..e la lettura è un esercizio continuo su se stessi, prima di tutto.
quel difetto di cui parli lo sento spesso anch'io, ma, come dici tu, è una sensazione piacevole!
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