la clessidra del pesco

oggi abbiamo tagliato il pesco nel giardino di casa.
aveva la mia stessa età, piantato da mio nonno per un augurio, perchè fosse già qui nel momento in cui ci saremmo trasferiti a casa nuova per la prima volta.

ne è rimasto poco, a parte le radici, che non si vedono, mai; un anello spesso e la base del fusto, grossa quanto lo sarei io se fossi un albero di pesco invece che una persona.


foto_u r s u l a b a s t a


finiscono così le radici se il posto in cui crescono è sbagliato? se qualcuno sceglie per loro la terra sbagliata, così che distruggono il luogo che le ospita, non tessendo per esso la terra, per renderlo più forte?

penso a questo guardando questo pesco.



cercare l’amore
di more
per ore
da re
e
dare
per ore
manciate di more
dimore di me per amore

clessidra_carmine abate



la clessidra è nelle radici, che qui, ora, lentamente andranno seccandosi. ma le mie radici io le voglio immaginare come se fossero un prolungamento delle mie gambe, il punto di contatto più forte con la terra in cui cammino, che sia rossa e fragile, che sia nera e dura, che sia di sabbia, o di roccia, o di sottobosco, poco importa. 
quelle radici me le porto dietro, affinchè possano parlare, vedere il mondo, dal profondo, crescere insieme a me come in questi anni ha fatto questo pesco, proteggendomi ancora dai terremoti più profondi, senza che nessuno un giorno le possa tagliare, se non una forza più grande.

storm thorgerson_the widow


era di pesche, non di more. e il cesto era giallo, non violetto. 
la polpa soda e la superficie liscia.


l’ombra dei rami protegge ancora i miei occhi dal sole più entrante, disegna ancora di linee scure  l’ombra sull’intonaco bianco. 
rughe sul volto, linee del tempo che passa, linee di vita che si allarga, guardando a una porzione di cielo più grande.

costruiamo collane

C’è un riserbo particolare nel modo in cui le donne più anziane guardano e sfiorano con le mani le lenzuola, le stirano, le ripongono, le piegano; una pudicizia antica che si addentra fin nella trama del tessuto, che sia il morbido cotone o il lino più ostico dei coprimaterassi.


foto_u r s u l a b a s t a

Quella pudicizia ha un profumo particolare, che è quello del tempo che mai passa, il tempo cui resiste il lino, cui resiste anche il ricamo, cui resistono i fiori intelaiati secondo un disegno antico.





coperte al telaio_c a r f i z z i
foto_ u r s u l a b a s t a

Ordito, una parola che racchiude l’incanto dell’inizio e l'architettura di un ordine, affinchè il disegno possa incominciare.


In una coperta al telaio vi è un mondo, un mondo pensato, studiato, misurato, fin nel dettaglio; un mondo che viene dalla terra; il mondo dei colori, di una gerarchia precisa; un mondo di suoni e parole che più non esistono, che più non si dicono.


coperte al telaio_c a r f i z z i_dettagli
foto_ u r s u l a b a s t a


Qui sta una parte della bellezza di Carfizzi. Una bellezza che nasce dalle mani di donne che sanno, che vedono, che insegnano, che aspettano, che lavorano, che disegnano, che sognano, che osservano.


donne al telaio_c a r f i z z i
mostra fotografica permanente_comune di carfizzi
Di queste donne ne son rimaste poche. Ma basta un cenno per far sì che nel racconto le loro mani comincino a disegnare nell’aria il movimento antico, parlando una lingua che non esiste più, urlando ancora la rabbia della rinuncia al lavoro bello per correre nei campi nella necessità, l’ingiustizia di una coperta andata senza merito a qualche sorella o, peggio ancora, a qualche cognata che non parla neanche l’arbëresh.
Soprattutto quelle mani parlano del momento della tessitura che riuniva in una sola casa più donne, che spostava quelle che non possedevano un telaio nelle case invece in cui ve n’era uno, ricche dimore.
Parla di cooperazione, di scambio. Femminile.

Carfizzi è stato un paese per cui quasi ogni casa possedeva un telaio, possedeva ori preziosi che, come le coperte, narrano una bellezza antica. Raccontano dei colori delle case, delle fantasie di queste donne, delle radici con cui coloravano i tessuti, una storia lunga, che parte dai campi di lino.


fase di lavorazione del lino
foto tratta da un filmato storico su carfizzi realizzato  da andrea falbo_anno 1940 ca

Mia nonna apre il baule con un sentimento complesso, un misto di orgoglio per il tesoro prezioso, custodito gelosamente negli anni, di nostalgia per il mondo emerso da un tempo lontano, di piccoli e tenui dolori intrisi di vuoti familiari, di silenzi e di frastuoni. E mentre mi fa vedere le sue coperte sembra perdersi nei ricordi di quel tempo, nella strada che và da casa alla campagna, nei ritmi di giornate lontane. Parlando una lingua a me quasi del tutto sconosciuta, muove le mani per spiegarmi il lavoro, per farmelo vedere. Poi all'improvviso si ferma e mi guarda, dicendomi "Me lo ricordo ancora, era bello quel rumore ad aprile e a maggio..non si sentiva altro che il tucchetucche-tucchetucche nelle case..e anche casa nostra era piena di donne che venivano a cucire, a chiedere consiglio, a chiedere il disegno, a chiedere una mano, a guardare e basta. Ma quello era un altro mondo. C’era fame e tanta miseria. Ma c'era anche questo".



Io mi chiedo ora dove sia quel tempo, dove siano quelle donne. Mi chiedo quando è stato il momento in cui si è pensato che costruire insieme la bellezza non fosse poi così importante.

In merito, una riflessione di Francesco Piccolo relativamente al complesso rapporto tra bellezza, economia e comunità, che poi così complesso alla fine non è.

“Noi pensiamo sempre che c’è stato un passato migliore, in cui le persone si occupavano, tutte, di questioni importanti. Pensiamo che siano i nostri tempi a essere superficiali, perduti. E’ questa certezza che ha reso saldo il nostro istinto reazionario, in qualsiasi spazio di vita. Era meglio prima.
Gli uomini primitivi, quando arrivava la luce del giorno, uscivano dalle caverne e rischiavano la vita anche per procurarsi coralli per fare collane. Rischiavano allo stesso modo, sia per la sopravvivenza sia per la vanità. La superficialità ha diritto di esistere, quanto la profondità. La vita politica, la vita contemplativa e la vita dedita ai piaceri sono sempre esistite contemporaneamente, e la capacità di farle convivere è il compito di ogni individuo e di ogni comunità”.

Una riflessione tonda, da cui scaturisce una verità e soprattutto l'idea della possibilità di un futuro: le piccole realtà come quella di Carfizzi non possono sperare di salvarsi con la macroeconomia, ma hanno forse una possibilità nel recupero delle attività culturali legate alla bellezza e a quello che può essere in qualche modo considerato effimero, altrettanto necessarie all’umanità,come avevano ben compreso gli uomini primitivi.